Introduzione

Con il miglioramento della qualità della vita, così come con l’avanzare delle tecnologie e delle pratiche mediche, trattare malattie e condizioni che altresì avrebbero potuto decretare la morte dell’individuo è diventato più facile e più efficiente. Le persone vivono più a lungo, e proprio questo potrebbe essere uno dei motivi che ha decretato, negli ultimi decenni, un’impennata nei casi di demenze nella popolazione anziana.

Possiamo definire demenza una condizione di disfunzione cronica e progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino delle facoltà cognitive della persona. Si tratta di un tema di forte interesse per la sanità pubblica: in Italia sono almeno 1.2 milioni le persone affette da demenza, e si stima che nei prossimi vent’anni questi numeri siano solo destinati a duplicarsi.

Al momento attuale, non esistono cure per annullare il corso delle demenze, ma solo metodologie per tentare di arrestarle e gestirne i sintomi: unito al fatto che non solo l’aspettativa di vita, come già menzionato, è più alta, ma anche che l’Italia risulta anche essere uno dei Paesi in Europa con la più alta percentuale di anziani, si inizia a capire per quale motivo l’Organizzazione Mondiale della Salute la definisce una delle massime priorità del sistema sanitario. Esistono farmaci per il trattamento delle demenze, ma i loro costi possono essere elevati, e in certi rari casi possono persino causare effetti colalterali..

C’è dunque un crescente interesse verso trattamenti e terapie non farmacologiche, che vogliono cioè sì mirare al miglioramento della qualità della vita del soggetto affetto da demenza, ma senza l’uso di medicinali. Sono attività che hanno pochi e solitamente molto trascurabili effetti collaterali e che vogliono sia portare miglioramenti nei sintomi esperiti dal paziente, sia innescare meccanismi di neuroplasticità per il mantenimento e il miglioramento delle abilità residue.

Elenchiamo di seguito alcuni trattamenti e terapie non farmacologiche per la gestione di demenze e Alzheimer.
Naturalmente, ogni persona è differente e ogni opzione può essere più o meno utile a seconda del caso che si ha davanti: Cooperativa Nomos mette a disposizione specialisti che dedicheranno un’attenzione speciale al tuo caro e saranno in grado di indicare il trattamento non farmacologico ideale.


Approfondiremo le seguenti terapie non farmacologiche per la cura dell’alzheimer:

  1. Atelier Alzheimer;
  2. Caffè Alzheimer;
  3. E.Ge.Do – Educativa geriatrica a domicilio;
  4. Approccio capacitante;
  5. Validation Therapy;
  6. Arteterapia;
  7. Doll therapy;
  8. Medicina narrativa;
  9. Musicoterapia.

Atelier Alzheimer

Atelier Alzheimer è un metodo innovativo che si basa sull’importanza, per il paziente affetto da demenza, di essere inserito in un ambiente stimolante e arricchito: includere questi soggetti all’interno di contesti strutturati in cui possano ricevere una stimolazione complessa permette di far leva sui meccanismi di neuroplasticità che rinforzano le connessioni tra neuroni, portando potenziali benefici a livello cognitivo. 

L’obiettivo di Atelier Alzheimer è di creare un servizio rivolto alle persone affette da demenza che potesse aiutare a rallentare il declino delle funzioni normalmente intaccate dalla malattia. 


Lo si può definire “Un laboratorio di stimolazione cognitiva per persone affette da patologia a carico del sistema nervoso centrale (es. demenza di tipo Alzheimer, demenza vascolare, etc.) con sintomi comportamentali e cognitivi manifestati lievi o di media entità, mirato a sviluppare e attuare opportune azioni volte al contenimento dei sintomi ed al mantenimento delle capacità residue dell’utente“, che possa quindi attivare e riabilitare l’individuo con demenza, e al contempo fornire al caregiver le competenze utili per proseguire il percorso di cura anche nel contesto della famiglia oltre che nel laboratorio stesso. L’intervento è modellato intorno alle necessità dell’individuo stesso, anche grazie ad un’equipe multidisciplinare, in modo tale da affrontare adeguatamente la complessità delle patologie legate all’invecchiamento.

Sono infatti previste le seguenti figure:

  • Lo psicologo coordinatore, con conoscenze di psicogeriatria, che si occupa di mansioni quali il primo colloquio con i familiari alla programmazione mensile delle attività, alla psicoeducacazione per i caregiver;
  • Neuropsicologo, che si occupa di valutare il funzionamento cognitivo dei possibili utenti;
  • Animatore, Educatore Professionale o Terapista Occupazionale, che si occupano dell’animazione riabilitativa e della stimolazione cognitiva;
  • OSS o ADB, che a loro volta si occupano delle mansioni di animazione e stimolazione, ma danno anche aiuto per bisogni fondamentali della persona;
  • Musicoterapeuta, per le attività di musicoterapia.

 

L’inserimento negli Atelier si articola come segue:

Il partecipante medio dell’Atelier Alzheimer è, innanzitutto, un soggetto con diagnosi di demenza e con sintomi cognitivi medio-lievi, con assenza di disturbi comportamentali, con mobilità adeguata e senza gravi deficit sensoriali. Un primo colloquio è dunque indispensabile per avere un assessment adeguato di questi aspetti, così come per spiegare al caregiver che le attività proposte all’interno dell’Atelier potranno, poi, essere replicate anche nel contesto domestico.

Le informazioni raccolte tramite l’inquadramento del soggetto permetteranno anche di creare un intervento più personalizzato possibile, tramite la creazione di gruppi omogenei di individui.

Una volta verificata l’idoneità del paziente a partecipare, viene quindi inserito nel gruppo di lavoro, mentre il caregiver viene incoraggiato ad osservare lo svolgimento delle attività e viene anche supportato sia a fronteggiare l’insorgere di problematiche, sia a gestire strategicamente la malattia e migliorare la qualità della vita di caregiver stesso e, di conseguenza, del malato.

 

Una giornata tipo nell’Atelier Alzheimer si svolge solitamente durante la mattina, e segue alcune attività precise:

  • Una fase di accoglienza, in cui gli ospiti sono fatti accomodare in modo strategico;
  • Una fase di orientamento, che può essere spaziale o temporale oppure che consista in attività come la lettura del giornale o ripassare i nomi di tutti i partecipanti;
  • Attività basate su diverse funzioni cognitive, che cambiano a seconda della funzione cognitiva da allenare,
  • Una merenda, in cui ogni utente si occupa di un compito diverso (chi apparecchia, chi sparecchia, chi prepara le porzioni…);
  • Un momento di Circle time, in cui ci si mette in cerchio per ripercorrere insieme le attività svolte.

 

Dal punto di vista dell’organizzazione, sono previste riunioni di equipe con lo psicologo coordinatore una volta al mese, il cui compito è di redigere la programmazione generale. È l’animatore però che crea la programmazione specifica sulla base di quest’ultima: sarà poi di nuovo lo Psicologo Coordinatore ad approvarla definitivamente.

Il monitoraggio si effettua anche a fine di ogni sessione, in cui l’Educatore procede a compilare una scheda di monitoraggio utenti dove vengono anche descritte brevemente le attività. Eventuali problemi critici sono invece riportati in diari.

 

Come menzionato poco sopra, Atelier Alzheimer prevede anche il supporto ai caregiver, figure che a fronte di una diagnosi di demenza non vengono informate adeguatamente sul decorso della malattia o su strategie adatte ad affrontarne le manifestazioni. Supportare il caregiver e l’ambiente familiare in un momento di ansia e stress, informandolo adeguatamente sulla condizione del soggetto con demenze, significa anche migliorarne la qualità di vita, con benefici che si riflettono sul paziente stesso. 

Il programma Atelier Alzheimer si è rivelato molto efficace in questo campo, alleggerendo il carico assistenziale e facendo sentire i caregiver più autoefficaci, più capaci di comprendere la malattia e più empowered. Per quanto riguarda l’anziano, i benefici che ne derivano sono di due tipi: diretti, dal momento in cui partecipare all’Atelier Alzheimer contrasta l’isolamento, migliora il tono comportamentale e permette di allenare le funzioni cognitive per migliorare la qualità di vita; e indiretti, in quanto il benessere del caregiver si riscontra inevitabilmente anche nel benessere dell’anziano.



Caffè Alzheimer

L’idea del Caffè Alzheimer nasce in Olanda, da Bere Miesen, per poi diventare una pratica diffusa in tutto il mondo e, naturalmente, anche in Italia.

Si tratta di luoghi dedicati alle persone con disturbi di memoria o deterioramento cognitivo e ai loro caregiver (parenti, amici o assistenti familiari), dove ci si incontra e si condivide la propria esperienza per qualche ora assieme.

Infatti, il ruolo del Caffè Alzheimer è duplice: terapeutica, per dare spazio all’informazione, e socializzante, così da poter scambiare esperienze e confrontarsi con operatori e specialisti.  All’interno dei caffè Alzheimer, infatti, è solitamente presente uno psicologo che svolge un ruolo di orientamento per i caregiver in merito ai servizi territoriali e a come muoversi rispetto alle varie fasi di malattia: questo permette al caregiver di percepire meno stress, così come di sentirsi più informato sulla demenza e supportato da figure adeguate.


Le attività svolte all’interno dei caffè Alzheimer sono perlopiù di carattere ludico-ricreativo (attività occupazionali, manuali, musica…). I Caffè Alzheimer sono aperti a tutti coloro che vogliono accedere. Durante l’attività il caregiver deve rimanere sempre presente, e partecipa a quello che è un momento formativo importante.

 

EGEDO - Educativa geriatrica a domicilio

Per soddisfare anche le esigenze di quelle famiglie con persone anche con demenze in forma grave desiderano occupare il proprio caro e svolgere attività di stimolazione cognitiva, il servizio di educativa geriatrica a domicilio permette all’utente di svolgere a casa propria attività ecologiche, di educazione ed animazione, mirate al mantenimento delle funzionalità residue dell’anziano stesso, con il sostegno di professionisti dell’assistenza.

L’attività di “animazione riabilitativa” sarà svolta individualmente all’interno dell’abitazione dell’utente.


Poter lavorare con l’utente all’interno del suo ambiente di vita permette:

  • Valorizzare la routine dell’utente;
  • Favorire una maggiore tranquillità nell’utente grazie all’ambiente conosciuto;
  • Entrare in contatto con le abitudini dell’utente e con il suo caregiver di riferimento.

Inoltre, il progetto EGEDO permette a tutti coloro che non possono recarsi fisicamente presso uno dei nostri Atelier, di poter comunque usufruire del Modello Atelier e dunque di una importante opportunità di stimolazione e presa in carico dell’utente e della famiglia al proprio domicilio. Il servizio EGEDO (attività di educativa a domicilio) offre la possibilità di svolgere 2 oppure 4 ore settimanali a domicilio, con un operatore dedicato e formato.

Le attività proposte saranno individualizzate e la relativa programmazione sarà revisionata mensilmente dallo Psicologo o Neuropsicologo referente della famiglia.

Il servizio si svolge sulla base di un piano personalizzato sui bisogni e le caratteristiche dell’utente, sviluppato in base ad un’analisi iniziale da parte dello Psicologo o Neuropsicologo che prenderà tutte le informazioni necessarie ed effettuerà un’osservazione qualitativa del caso.

All’interno del domicilio verranno proposte attività di stimolazione e mantenimento delle capacità cognitive e funzionali residue dell’utente: attività sensoriali, sociali con valenza ecologica riprese dalla normale quotidianità del singolo utente.

Le attività saranno quindi individualizzate e realizzate con definite modalità di relazione.

All’interno del progetto saranno coinvolti anche i caregivers formali o informali che verranno adeguatamente formati dallo Psicologo o Neuropsicologo di riferimento del caso.

L’operatore (Educatore) preparerà e metterà a disposizione dei caregiver vario materiale che sarà utile per proseguire l’attività e quindi dare continuità all’intervento anche durante l’assenza dell’operatore. I materiali consegnati saranno calibrati sulle capacità e disponibilità da parte del caregiver in modo da non influire sul carico assistenziale.

Approccio capacitante

Ideato da Vigorelli, L’Approccio Capacitante affonda le sue radici in una moltitudine di teorie psicologiche e sostiene che ci sia la possibilità di creare, per il soggetto con demenze, condizioni in cui egli possa comunicare in maniera soddisfacente e quindi essere “sufficientemente felice” in convivenza con i suoi caregiver; tutto questo senza mai dimenticare di prestare attenzione ai desideri e alle risorse dell’anziano e senza ignorarne quell’individualità che, nonostante la malattia, non si va mai realmente a perdere.

L’Approccio Capacitante sostiene che “le parole [degli assistiti affetti da demenza] sono immodificabili, mentre quelle [degli operatori] possono essere scelte per trovare una via d’uscita felice alle situazioni di disagio”.


L’approccio sottolinea dunque l’importanza fondamentale del trovare le giuste parole per rivolgersi alla persona, senza correggerla e senza far domande, e dando la priorità soprattutto alla relazione con l’assistito.

Punto focale del metodo è il riconoscimento e la stimolazione di alcune competenze elementari che, si ritiene, rimangono presenti anche quando tutte le altre funzioni cognitive sono compromesse, e che sono necessari all’individuo per fare sì che possa interagire con gli altri e anche avere agency sul mondo che lo circonda.

Queste competenze sono:

  • La competenza a parlare, ovvero quella di produrre parole fine a se stessa. Questo significa che non viene valorizzato tanto il senso della parola, quanto il fatto che la parola sia stata prodotta in sé per sé, anche se è per esempio ripetuta o incompleta. Possiamo non comprendere il senso che sta dietro a questa produzione verbale, ma nonostante questo è fondamentale che rimanga viva e attiva.
  • La competenza a comunicare. È diversa da quella a parlare, in cui si valorizza l’articolazione della parola: in questo caso è la competenza di trasmettere, di comunicare qualcosa, sia questa comunicazione fatta attraverso la parola o con canali paraverbali o non verbali;
  • La competenza emotiva, che si riferisce sia al provare emozioni, sia al riconoscerle nell’interlocutore e condividerle con lui;
  • La competenza a contrattare sulle cose relative alla quotidianità;
  • La competenza a decidere, anche in presenza di deficit cognitivi. Queste ultime due competenze sono strettamente legate l’una all’altra: si tratta di permettere al soggetto di mantenere la capacità di scegliere, interpellandolo e prendendo in considerazione i suoi desideri. In questo modo, se ne mantiene anche la dignità e l’autostima.

Nel contesto dove si applica l’approccio capacitante, l’assistito può quindi “svolgere le attività di cui è capace” senza sentirsi in difetto, ma sentendosi soddisfatto di quello che fa.

L’Approccio Capacitante diventa importante non solo nella vita nelle RSA, ma anche nelle famiglie con soggetti affetti da demenze o Alzheimer. Il metodo ABC, un tipo gruppo di autoaiuto per familiari di soggetti con Alzheimer, si basa proprio su questo approccio: esso vuole mettere al centro le conversazioni e gli scambi di parole (ma e anche le pause e i silenzi) che si susseguono tra assistito e caregiver, e si articola lungo un percorso di Dodici Passi per aumentare la competenza nell’affrontare i problemi di tutti i giorni.

I dodici passi sono:

  1. Non fare domande. O meglio — è bene osservare l’effetto che le domande fanno sulla persona. Quando l’assistito si dimostra a disagio davanti a domande che possono esser percepite come invadenti o difficili è preferibile evitarle, sempre col fine di preservare la sua felicità.
  2. Non correggere. Come menzionato sopra, la competenza a parlare è più importante della correttezza del parlato stesso: correggere ripetutamente una persona perché usa forme sbagliate o linguaggi erronei può diventare controproducente.
  3. Non interrompere. Questo si concretizza in due cose molto importanti: non completare le frasi di una persona che esita o balbetta, e non fare domande che sottintendono fortemente la risposta che vogliamo sentirci dare
  4. Ascoltare. Per fare questo bisogna stare attenti, bisogna accogliere e carpire ciò che l’altra persona ci dice, rispettando i suoi tempi e i suoi silenzi.
  5. Accompagnare con le parole. È importante porsi nel modo giusto, e scegliere con attenzione le parole con cui si risponde. Questo comporta anche accettare il “mondo” del malato così anche come le sue concezioni, di nuovo in un’ottica non di correzione, ma di accoglienza.
  6. Rispondere alle domande. Fare qualcosa di “semplice” come solo il rispondere una domanda può essere qualcosa di grandissimo aiuto: il soggetto può avere bisogno di una risposta per tanti motivi, sia perché è disorientato nel tempo o nello spazio o perché non ricorda la funzione o il nome di un oggetto, e rispondergli significa aiutarlo ad orientarsi di nuovo e a superare un momento di disagio.
  7. Comunicare con i gesti. Questo diventa fondamentale soprattutto nel momento in cui la comunicazione verbale va a decadere, lasciando spazio ad altri canali di comunicazione. I gesti, ma anche il tono della voce, rientrano in questi canali alternativi e complementari: utilizzare un linguaggio non verbale unito a quello verbale può aiutare a sottolineare il significato delle parole.
  8. Riconoscere le emozioni. È importante osservare e comprendere il malato per recepire l’espressione delle sue emozioni. Fondamentale diventa quindi individuare l’emozione, darle un nome e restituirla all’assistito; tutto questo, naturalmente, sempre in un’ottica di accettazione, non cercando insistentemente di trovare il motivo dietro allo stato emotivo del soggetto ma riconoscendo che la sua giustificazione esiste per il paziente stesso.
  9. Rispondere alle richieste. Non significa acconsentire a tutto quel che viene domandato ma, semplicemente, rispondere nel momento in cui viene chiesto di fare qualcosa — che la risposta sia positiva o negativa non è la cosa fondamentale, l’importante è che sia adeguata, e che il soggetto si senta preso sul serio.
  10. Accettare che faccia quello che fa. Evitando, naturalmente, i comportamenti dannosi, gli eventuali comportamenti bizzarri non devono essere biasimati con durezza: è molto meglio accettarli, poiché sono comunque espressione dell’indipendenza e dell’autonomia dell’individuo.
  11. Accettare la malattia. Per quanto sia complesso, è importante cercare di avere un atteggiamento positivo nei confronti della malattia. Lottare contro di essa è inutile: è più salutare assecondarla.
  12. Occuparsi del proprio benessere. È importante ricordare che nella relazione di cura si è in due: assistito e caregiver. Anche quest’ultimo, dunque, è bene che cerchi di preservare la stessa felicità di cui si è parlato fino ad adesso, e questi passi, se rispettati, possono essere un punto d’inizio per creare un’atmosfera positiva che influisce non solo sul malato, ma anche su chi si prende cura di lui.

Validation Therapy

La Validation Therapy porta a sua volta l’accento sul concetto di rispetto.

Sviluppata da Naomi Feil, la Validation Therapy è un metodo di comunicazione che permette di connettersi con soggetti in stadi della demenza da moderati a gravi, che dà più importanza all’aspetto emozionale che alla verità fattuale di quanto viene scambiato nella conversazione.

Far sentire la persona con demenza ascoltata, validata e rispettata (piuttosto che non considerata, ignorata o peggio schernita) permette, infatti, di confortarla: questo genere di comunicazione tende a prevenire o smussare stati di rabbia o agitazione.


Al centro della Validation Theory ci sono 11 principi fondamentali:

  1. Tutte le persone molto anziane sono uniche e meritevoli di rispetto
  2. Le persone anziane che sono mal orientate e disorientate dovrebbero essere accettate per come sono, e non dovremmo provare a cambiarle
  3. Ascoltare con empatia permette di stabilire fiducia, ridurre ansia e ripristinare dignità
  4. I sentimenti dolorosi che sono espressi, riconosciuti e validati da un ascoltatore fidato si ridurranno. Sentimenti dolorosi che sono ignorati e soppressi invece si rafforzeranno.
  5. C’è una ragione dietro i comportamenti di persone molto anziane mal orientate
  6. Le ragioni sottostanti al comportamento di persone molto anziane mal orientate o disorientate può essere ricondotto a uno o a una molteplicità di bisogni umani basilari, che possono andare dal bisogno morire in pace al bisogno di stimolazione sensoriale
  7. Comportamenti appresi in giovane età tornano quando l’abilità verbale e la memoria recente falliscono
  8. Simboli personali usati da persone anziane mal orientate o disorientate sono persone o cose (nel momento presente) che rappresentano persone cose o concetti del passato che sono carichi di emozioni.
  9. Persone anziane mal orientate o disorientate vivono su diversi livelli di consapevolezza, spesso contemporaneamente.
  10. Quando i cinque sensi falliscono, persone anziane mal orientate e disorientate stimolano e usano i loro “sensi interiori”. Vedono “con l’occhio della mente” e sentono suoni del loro passato.
  11. Eventi, emozioni, colori, suoni, odori, sapori e immagini creano emozioni, che di contro scatenano emozioni simili a quelle esperite nel passato. Le persone anziane reagiscono nel momento presente allo stesso modo in cui reagivano nel passato.

In poche parole, la validation therapy incoraggia l’ascoltatore a unirsi alla realtà vissuta dalla persona con demenza, piuttosto che strapparla da essa per riportarla nella propria. Questo permette di ridurre l’ansia, e di dare alla persona con demenza un senso di sicurezza derivato dall’empatia e dalla fiducia che prova nei confronti dell’ascoltatore.
Diventa quindi un approccio utile nel momento in cui qualsiasi persona, che sia un operatore o un familiare, si ritrova ad interagire con una persona con demenza: raccogliendo gli “indizi” che possono sottostare a una reazione o a uno stato emotivo, l’interlocutore può accogliere la realtà personale della persona con demenza o Alzheimer, immedesimandosi in lei e tralasciando i contenuti cognitivi della comunicazione per soffermarsi, invece, sui segnali verbali e non verbali.

Alcune tecniche della validation therapy possono includere:

  • Prepararsi ad ascoltare in modo empatico, mettendo da parte le proprie emozioni per concentrarsi, invece, su ciò che l’altro ha deciso di condividere, cercando di coglierne le più fini sfumature
  • Partecipare alla reminiscenza, soprattutto se l’altro sta rievocando il modo in cui era in grado di risolvere un problema. Visto che una persona con demenza non può imparare nuove strategie per fronteggiare i problemi che la possono cogliere, trovare invece indizi nel passato può dare loro una mano.
  • Se la persona con demenza apprezza il contatto fisico, lo si può usare per stabilire con loro una relazione: una carezza, ad esempio, può rievocare ricordi piacevoli legati all’infanzia. La cosa importante è rispettare lo spazio personale della persona: se è infastidita dal contatto, questa strategia non può funzionare.
  • È utile mantenere il contatto visivo, per farli sentire sicuri e apprezzati.
  • La musica è un ottimo strumento, in grado di trasportare la persona con demenza in posti e tempi lontane.
  • Litigare con una persona disorientata non è quasi mai producente, e anzi, porta solo frustrazione e agitazione
  • È meglio usare un tono di voce chiaro, basso e dolce. Un tono troppo acuto potrebbe esser difficile da comprendere, soprattutto se l’anziano ha problemi di udito; e una voce troppo alta può esser vissuta come un’aggressione.
  • Un anziano disorientato difficilmente riuscirà a rispondere quando gli si chiede “perché”: è molto meglio utilizzare altre domande che si soffermino invece sul chi, cosa, dove, quando e come, in modo tale che la conversazione rimanga concreta e fattuale.

Arteterapia

L’arteterapia è, come suggerisce Farokhi, una forma di terapia espressiva che prevede l’utilizzo di strumenti artistici: per quanto siano state formulate molte definizioni a riguardo, la maggior parte di esse si può dividere, complessivamente, in due principali punti di vista.
Il primo si basa sulla concezione che l’arte sia comparabile a una forma di comunicazione simbolica: si mette in risalto quel che viene creato, e si considera che le opere d’arte prodotte nell’ambito dell’arteterapia siano utili al soggetto per comunicare emozioni, pensieri ed elementi appartenenti al proprio mondo interiore.
Il secondo, invece, mette in risalto l’atto della creazione stessa: creare arte in sé è visto come qualcosa di terapeutico che permette al soggetto di esprimere il proprio essere.


Alla luce di questo, l’arteterapia viene ormai usata per molti scopi differenti, e soprattutto per alleviare il disagio legato a condizioni patologiche sia fisiche che mentali.

Per quanto riguarda il suo utilizzo nell’ambito dell’Alzheimer e delle demenze in generale, la letteratura a riguardo risulta essere ancora agli albori, ma si reputa che l’arteterapia possa essere un’attività importante che può ridurre l’ansia, invogliare l’interazione con gli altri e in generale migliorare la qualità della vita del soggetto tramite la creazione di collage, dipinti e disegni sia in maniera libera, sia con uno spunto da parte dell’operatore.

È, inoltre, considerata adatta anche per soggetti che non si sono mai particolarmente dedicati all’arte.

Il risultato del processo creativo che avviene nell’arteterapia permette la realizzazione di un oggetto tangibile, che può essere utile anche successivamente per avere, se lo desidera, un dialogo con la persona che l’ha creato. In questi interventi, però, è sempre importante tenere in considerazione prima di tutto l’individualità del soggetto, così come le sue necessità e le sue disposizioni: se non c’è interesse (esistono casi di persone che dimenticano di aver prodotto una certa opera d’arte, finendo per buttarla via), o peggio, se l’individuo si mostra indisposto davanti alla sua opera, è sufficiente che essa esista in quanto tale, con tutto il processo che c’è stato per produrla.

Ci sono alcuni benefici relativi all’applicazione dell’arteterapia, tra i quali enumeriamo i seguenti:

  • L’arteterapia sembra avere un effetto positivo sull’acuità, sul grado di attività fisica, sulla calma e sulla socialità e coesione, così come su disturbi del comportamento;
  • Potrebbe portare miglioramenti a livello di sintomi neuropsichiatrici, comportamenti sociali e autostima;
  • Potrebbe essere utile nella comunicazione e nella riduzione di comportamenti legati allo stress;
  • Può essere utile ad allenare le capacità residue dell’individuo, aumentando la qualità della vita del soggetto e aumentandone la capacità di auto-espressione;
  • Può aiutare a gestire sentimenti di perdita, cambiamento, incertezza; può aumentare la resilienza e creare, in generale, un ambiente protetto dove esprimere sentimenti negativi o dolorosi;
  • Può aiutare il soggetto a ricordare elementi del proprio passato.Si reputa inoltre che il processo creativo possa essere utile a rinforzare le connessioni sinaptiche all’interno del cervello, con un effetto potenziale sul deterioramento delle abilità del soggetto: un maggior numero di queste connessioni sembra essere associato con un rallentamento del decorso delle demenze e un aumento della plasticità cerebrale.Le opere prodotte tramite l’arteterapia possono essere usate come supporto per seguire il corso della malattia di demenza. I disegni di soggetti affetti da demenza di Alzheimer, per esempio, tendono a manifestare alcune caratteristiche ricorrenti, quali regressione, semplificazione, disorganizzazione, perseverazione, linee sparse, pochi dettagli, prospettiva confusa. Esistono, a questo scopo, test specifici che possono essere potenzialmente più puntuali, come il disegno dell’orologio, che richiede un certo grado di organizzazione spaziale e pianificazione.

È bene tenere in considerazione alcune “regole” quando ci si approccia a soggetti affetti da demenza per l’arteterapia:

  • È importante, innanzitutto, creare un senso di continuità e coerenza nelle routine, per diminuire l’ansia e aiutare il soggetto a sentirsi in controllo della situazione
  • Promuovere un certo senso di sicurezza sulla base delle necessità dei soggetti coinvolti, eventualmente aiutandoli ad entrare in confidenza con lo spazio che li circonda prima ancora di presentar loro cancelleria e oggetti per creare arte
  • Tenere a mente la sicurezza fisica dei soggetti coinvolti: per evitare che episodi di confusione mettano a rischio la salute del soggetto, è bene utilizzare pitture, colori, penne e pennarelli con inchiostri non tossici
  • Usare la forma d’arte più adatta per ogni soggetto, tenendo in mente eventuali limitazioni e promuovendo l’autonomia individuale: diverse tecniche possono essere adatte per diverse persone.In linea di massima, però, l’assenza di linee guida specifica crea la necessità di prestare attenzione a certi fattori: può essere positivo tenere in considerazione il tipo di demenza con cui si sta avendo a che fare nel momento in cui viene proposta una specifica attività artistica con uno specifico medium, e che sono necessarie maggiori ricerche per individuare cosa sia meglio per quale tipo di paziente.

Altri studi ribadiscono inoltre l’importanza di utilizzare materiali e strumenti non tossici, e anche, eventualmente, di sfruttare strumenti come pitture da usare con le dita o pastelli morbidi in quanto semplici da usare anche per persone che hanno problemi legati alla mobilità.

È bene comunque cercare di non usare immagini e strumenti troppo infantili: bisogna mantenere la dignità del soggetto affetto da demenza, senza equipararlo ad un bambino.

Doll Therapy

La terapia della bambola, o doll therapy, è un trattamento non farmacologico e non invasivo mirato al miglioramento alla qualità della vita del soggetto affetto da demenza, che consiste nell’interazione con una bambola (stringendola, parlandoci, coccolandola, abbracciandola, dandole da mangiare e anche cambiandole i vestiti).

Si tratta di una tecnica sempre più diffusa, nonostante la quantità di studi in letteratura stia incrementando solo negli ultimi anni: al fianco di un numero crescente di studi empirici, esistono da tempo diverse testimonianze di carattere aneddotico che parlano dei benefici generali di questo trattamento, descrivendolo come un’attività in grado di ridurre l’agitazione, l’aggressività, i fenomeni di wandering e migliorare l’umore del soggetto così come il suo comportamento e le sue abilità prosociali.


Sono state proposte diverse teorie alla base del funzionamento di questa pratica: la teoria dell’attaccamento di Bowlby gioca senz’altro un ruolo da protagonista, con le affermazioni di Miesen che sottolineano l’importanza di un fenomeno che, contrariamente a quanto si pensi, non è qualcosa che si riferisce solamente alle prime fasi della vita del soggetto. Al contrario, nelle demenze si ha spesso un “ritorno” al sistema di attaccamento, in quanto succede che si vadano a ricercare figure importanti come il padre o la madre per sentirsi più sicuri in quello che è un momento estremamente confuso e incerto della vita del soggetto.

La bambola può essere quindi qualcosa che aiuta a mitigare lo stress della mancanza della figura di attaccamento, un “oggetto transizionale”, nelle parole di Winnicott, che aiuta l’individuo a separarsi dalla figura di attaccamento primario.

Alcuni studiosi, tuttavia, si schierano contro la terapia della bambola, sostenendo che presenti alcune criticità etiche. Nello specifico, si contesta l’eventualità che il soggetto affetto da demenza possa, nell’ambito di questa terapia, essere umiliato e “infantilizzato”, ingannandolo e trattandolo bambino invece come un individuo adulto dotato della sua dignità. A prescindere da questa posizione, però, molti studi sembrano portare prove a favore di questo trattamento, sottolineandone benefici e anche la natura complessivamente positiva.

Tra i vantaggi della terapia della bambola, infatti, possiamo enumerare:

  • Comportamenti aggressivi, agitati e di wandering tendenzialmente ridotti
  • Benefici a livello pro-sociale e comportamentale
  • Minor ansia
  • Più interazioni
  • Migliore orientamento e maggiore esplorazione
  • Umore elevato
  • Benessere generalizzato

Tuttavia, è bene ricordare che la terapia della bambola non è per tutti, e che anzi, come tutte le terapie non farmacologiche, improntate spesso sull’individualità dell’individuo, è importante per prima cosa accertarsi che il soggetto con demenza sia ben predisposto nei confronti di questo trattamento.

Esistono, per fortuna, alcune raccomandazioni relative all’uso della terapia della bambola in RSA: ne riportiamo alcune:

  1. Riferirsi alla bambola con lo stesso nome che il soggetto utilizza per riferirsi ad essa (se la chiama “bambola” si usa bambola; se la chiama “bambino” si chiamerà bambino, e se la chiama con un nome di persona si userà un nome di persona)
  2. Mai togliere al soggetto la bambola senza il suo permesso
  3. Quando si toglie la bambola al soggetto, bisogna dare una valida giustificazione, spiegando dove la si sta portando e quando la si riporterà al soggetto
  4. In alcune situazioni può diventare necessario togliere la bambola al soggetto, soprattutto quando si sta affaticando troppo per perseguire il “benessere” della bambola. In questo caso è utile utilizzare strategie simili a quelle del punto precedente, ad esempio “è dura badare a un bambino, ci penso io mentre tu ti rilassi. Te lo restituisco appena ti sei riposato.”
  5. Se il soggetto vuole portare la bambola a letto con sé è bene permettergli di farlo, eventualmente fornendogli culle e altri oggetti. Se non la porta con sé, è bene lasciarla sulla seggiola che è solito occupare per evitare confusione.
  6. Mai togliere la bambola al soggetto per punirlo
  7. La bambola non deve essere l’unica attività per il soggetto: è bene che l’individuo sia partecipe anche di altre iniziative, o che eventualmente la bambola sia utilizzata per incoraggiare la partecipazione alle stesse
  8. La bambola potrebbe elicitare memorie negative: se dovesse succedere, è bene indagare la storia del soggetto e rassicurarlo.
  9. È bene informare la famiglia quando si decide di usare la bambola, rendendola edotta dei benefici che si possono trarre
  10. Bisogna fornire bambole diverse a diversi utenti per evitare la confusione
  11. Le bambole che piangono o che tengono gli occhi chiusi possono creare disagio nel soggetto con demenza, quindi è bene evitarle
  12. Bisogna lasciare capacità decisionale al soggetto con demenza, senza forzarlo ad utilizzare la bambola a tutti i costi ma lasciandola in un posto dove, se vuole, la può prendere
  13. Sarebbe opportuno pianificare tutto ciò che è relativo alla terapia della bambola, in particolare monitorando i livelli di fatica del soggetto
  14. La bambola, quando non si usa, va messa in un posto sicuro, per evitare che il soggetto possa pensare che sia in pericolo.La doll therapy è stata utilizzata con successo anche in Italia, con una mole sempre crescente di studi che ne enumerano le qualità e potenzialità.

Tra i vantaggi che abbiamo già enumerato, alcuni studi sostengono infatti che la terapia della bambola in alcuni casi sia utile anche a ridurre il professional caregiver burden, ovvero, il “carico” psicologico e fisico che grava sul professionista che si occupa del soggetto, e che possa essere utilizzata con successo in contesti ospedalieri e casi più acuti.

Medicina narrativa

La Medicina Narrativa è “una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa.

La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione di un percorso di cura personalizzato (storia di cura).

La Medicina Narrativa (NBM) si integra con l’Evidence-Based Medicine (EBM) e, tenendo conto della pluralità delle prospettive, rende le decisioni clinico-assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate.

La narrazione del paziente e di chi se ne prende cura è un elemento imprescindibile della medicina contemporanea, fondata sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nelle scelte. Le persone, attraverso le loro storie, diventano protagoniste del processo di cura”.


È dunque, più che una tecnica o uno strumento, un modo nuovo di intendere la relazione medico-paziente: elementi della Medicina Narrativa includono l’attenzione (l’essere presente, ascoltare con partecipazione ciò che l’altro ha da dire), la rappresentazione (come l’altro è rappresentato e si presenta attraverso le sue storie alle persone che lo circondano, compreso il medico) e l’affiliazione (la condivisione con l’altro delle sue sofferenze, empatia e comprensione).

Nell’ottica della Medicina Narrativa lo scopo è quello di superare, almeno in parte, l’asimmetricità del rapporto di cura, in cui il dottore tende consegna le prescrizioni mediche e il paziente è tenuto solo a seguire le sue indicazioni. Questo sbilanciamento all’interno della relazione terapeutica può portare problemi nella diade medico-paziente; il primo investito di aspettative a volte eccessive, il secondo, invece, intrappolato nella sensazione di trovarsi all’interno di una condizione estremamente impersonale che non tiene di conto della sua individualità.

Con la medicina narrativa si andrebbe a superare questo scoglio: il medico vedrebbe, riflessi all’interno del paziente, i propri stessi sentimenti; potrebbe entrare più profondamente in contatto con la storia, con le emozioni e con le vicende personali di ogni paziente che, a sua volta, metterebbe in chiaro il suo mondo e i suoi contesti, gettando le basi per un’alleanza terapeutica più salda e duratura. Il percorso di cura stesso prenderebbe un nuovo significato, con il medico che non è più solo una figura autorevole e autoritaria, ma qualcuno a cui affidarsi e a cui affidare la propria storia, i propri dubbi, la propria unicità, per costruire insieme una “nuova storia”.

La Medicina Narrativa può essere applicata attraverso una moltitudine di modalità e strumenti: possono essere utilizzati racconti orali (domande, disegni, mappe concettuali, lettura di storie e racconti); racconti scritti (diari); narrazioni di gruppo (focus group) e videointerviste, rendendolo dunque un approccio particolarmente versatile e facile da modellare intorno all’individuo.

Quando si tratta di utilizzarla in caso di malattie neurodegenerative, istintivamente potrebbe essere facile credere che il soggetto con demenza non sia in grado di partecipare al processo di co-costruzione di una storia di cura, e che quindi sia più indicato affidarsi ai suoi parenti e caregiver che a loro volta possono diventare punti di riferimento per il paziente e punti di partenza, per il medico, per suggerire la terapia più efficace. Per quanto questa sia un’opzione viabile, è tuttavia importante ricordare che spesso è ben possibile utilizzare le narrazioni del soggetto affetto da Alzheimer o altre demenze: esistono studi che sottolineano fortemente l’importanza delle testimonianze dei pazienti con demenza, al fine di creare per loro il miglior ambiente possibile ed evitare l’insorgere di sintomi come depressione, wandering, o aggressività.

Quando il soggetto incontra un professionista che sia predisposto ad accogliere la sua storia senza pregiudizi, empaticamente, pur mantenendo il giusto senso critico per distinguere le narrazioni funzionali da quelle disfunzionali (utilizzando, cioè, quella che possiamo definire come “umiltà narrativa”) è possibile entrare nel vissuto del paziente e costruire un’alleanza terapeutica salda e duratura.

La Medicina Narrativa è un’ottica versatile, ma per la quale l’interesse è scaturito solo in tempi recenti – motivo per cui non esiste ancora un protocollo o una serie di linee guida relative all’interpretazione e all’integrazione delle storie nel percorso di cura. Citando L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR), però, “la metodologia narrativa ha una precisa articolazione che procede per stadi: stimolare la narrazione, raccoglierne i contenuti, marcare e indicizzare gli stessi, costruire dei significati, elaborare il linguaggio narrativo, valutare in base all’impatto”.

Allo stesso modo, non esistono prove che una modalità di raccolta sia più efficace di un’altra: da interviste faccia a faccia più o meno strutturate alla compilazione di diari, è bene adeguarsi alle necessità e alle predisposizioni della persona che si ha davanti per scegliere lo strumento più adatto.
Nel caso dei pazienti affetti da demenze, una metodologia che in letteratura ha riscontrato un certo successo è quella dei Time Slips: In questo caso, non si ha a che fare con un singolo, bensì con un gruppo di persone che vengono spronate a raccontare storia utilizzando l’immaginazione ed incoraggiando improvvisazioni. Dei facilitatori distribuiscono immagini surreali a un piccolo gruppo di soggetti e usano domande aperte per incoraggiare lo storytelling. Tutte le verbalizzazioni sono incluse da uno scriba in un poema in forma libera, e la storia che si crea viene riletta molteplici volte a coloro che hanno contribuito a crearla per aumentare senso di interazione, creatività, e autostima. Sono storie che spesso non hanno la classica struttura narrativa di una novella, ma la loro imprevedibilità tende a divertire gli individui mentre, allo stesso tempo, celano al loro interno elementi intrinseci della loro storia di vita.

Uno studio di George e Houser che ha voluto verificare l’utilità di questa tecnica ha scoperto che i benefici per gli individui coinvolti sono stati molteplici (maggior creatività, effetti positivi sul comportamento, miglioramento della qualità di vita nonché l’importanza di esser coinvolti in un’attività). Questa tecnica aiuta a far sentire gli individui con demenze come parte di qualcosa e capaci di creare una storia bella e divertente; inoltre, aiuta anche chi si occupa di queste persone, regalando squarci importanti per entrare nella vita e nell’esperienza di questi anziani.

Insomma, esistono tutti i presupposti per dare alla Medicina Narrativa una chance di portare i suoi benefici all’interno della relazione di cura: è importante da capire che anche se sembra quasi voler sconvolgere sistema, o voler ribaltare completamente le carte in tavola trasformando i pazienti nei loro stessi medici, si tratta al contrario di un semplice punto di incontro, di un’occasione per capire il paziente, accoglierlo e costruire insieme qualcosa di nuovo.

L’importanza di una ferrea competenza medica e socio-sanitaria rimane indiscutibile: quello che si suggerisce è solo di ritagliarla intorno al paziente, per assicurarsi di fornirgli la soluzione migliore per la sua storia, le sue esigenze, le sue aspettative.

Musicoterapia

Al giorno d’oggi, possiamo servirci della definizione della World Federation of Music Therapy per dare una descrizione di musicoterapia, ovvero “L’uso professionale della musica e dei suoi elementi come intervento in ambienti medici, educativi e comuni con individui, gruppi, famiglie o comunità che cercano di ottimizzare la loro qualità di vita e migliorare la salute e il benessere fisico, sociale, comunicativo, emotivo, intellettuale e spirituale. Ricerca, pratica, educazione e formazione clinica in musicoterapia sono basati su standard professionali in relazione ai contesti culturali, sociali e politici.”

In altre parole, si tratta di un tipo di terapia attuata da un musicoterapeuta qualificato, che mira al migliorare il funzionamento dell’individuo in diverse aree. Nonostante la moltitudine di approcci e modelli musicoterapeutici, in linea di massima la si può ulteriormente suddividere in due tipologie: attiva, quando il ricevente della terapia è coinvolto nella creazione musicale, o comunque vi partecipa in qualche modo; ricettiva, quando il soggetto si limita ad ascoltare.


Alcuni dei domini in cui si reputa che la musicoterapia possa essere beneficiaria nel trattamento di soggetti con demenze sono:

Le informazioni legate alle canzoni tendono ad essere ricordate più facilmente; inoltre, in casi di demenza moderata, la musica sembra facilitare la reminiscenza di eventi importanti;

  • La musicoterapia pare avere un effetto positivo sul benessere emotivo dei partecipanti, che di conseguenza porta a un comportamento più sociale;
  • Si riducono sensibilmente i comportamenti di wandering;
  • L’agitazione, tipica di pazienti con demenza, può essere smorzata con l’utilizzo di musica e canzoni, sia in condizioni generali sia in situazioni specifiche (come, ad esempio, durante la cura dell’igiene del soggetto o durante i pasti).

Si reputa, inoltre, che la musicoterapia possa essere utile per smorzare altri effetti dovuti alle demenze: può aiutare ad alleviare i disturbi dell’umore, quali ansia o depressione; ma sembrerebbe anche in grado di migliorare, soprattutto in soggetti con malattia moderata, velocità psicomotoria, attenzione, memoria e orientamento.
Poiché però gli effetti tendono a svanire all’interruzione della terapia, alcuni esperti consigliano di utilizzarla come terapia a lungo termine, e di implementarla, in caso di terapie di gruppo, nei momenti della giornata in cui gli individui sembrano essere più nervosi o indisposti.

In letteratura possono essere trovate diverse tecniche per quanto riguarda l’uso della musicoterapia con gli anziani affetti da demenze, spesso utilizzate a seconda dei bisogni e delle predisposizioni dei soggetti stessi.

Ecco una lista molto comprensiva delle diverse tipologie di musicoterapia e dei loro benefici, tra cui:

  • Ascoltare musica. L’approccio è sovrapponibile alla già descritta tipologia ricettiva, e gli autori riportano una tendenza migliorativa in test sulle abilità cognitive;
  • Cantare. Quello del canto è uno strumento molto utilizzato con le demenze, e risulta portare miglioramenti anche a livello di sintomi neuropsichiatrici. Cantare canzoni con un tono emotivo triste, inoltre, sembrerebbe facilitare il recupero di memorie autobiografiche;
  • Interventi basati sulla musica. Questo termine viene utilizzato per descrivere gli interventi in cui un musicoterapeuta utilizza ritmo o melodie per aiutare i soggetti a ricordare istruzioni o contenuti verbali: la musica sembrerebbe, infatti, riuscire a migliorare l’abilità del cervello di codificare le informazioni;
  • Musica di sottofondo. Non si trovano facilmente evidenze scientifiche relative all’utilizzo di musica lasciata suonare in sottofondo, ma alcuni studi sembrano evidenziare che sia una tecnica potenzialmente utile per aiutare il ricordo di memorie autobiografiche e ridurre l’ansia;
  • Musica e attività. Con questo si intende un uso della musica in senso esteso, in cui i soggetti non si limitano a seguire il ritmo o a cantare, ma anche a danzare, ballare o comunque muoversi seguendo la canzone. È utile soprattutto per migliorare emozioni e cognizioni, e anche alleviare sintomi neuropsichiatrici;
  • Stimolazione multisensoriale. In questo caso la musicoterapia viene inserita in programmi più ampi con diverse attività che stimolano diversi domini: come si può immaginare sono interventi che variano molto, e riassumerne i benefici generali risulta più difficile. Possono spaziare da programmi che utilizzano musicoterapia, arteterapia e orientamento, con lo scopo di migliorare cognizioni, ma anche ansia e depressione ad attività che si servono di videogiochi per combinare musicoterapia e attività fisica.Si può dire che esista quantomeno un certo numero di prove a sostegno del fatto che la musicoterapia possa essere utile nel migliorare sintomi legati alle demenze, soprattutto quelli di tipo comportamentale e psicologico.

In una review del 2012, l’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP) offre alcune raccomandazioni per l’uso clinico della musicoterapia con soggetti anziani affetti da demenze:

  • Innanzitutto, è importante ricordare che ogni intervento deve essere quanto più possibile personalizzato sul singolo individuo. Quando il trattamento è così strutturato, la musicoterapia porta i risultati migliori;
  • Soprattutto per quanto riguarda il miglioramento e la gestione di sintomi di tipo comportamentale e psicologico, il tipo di musicoterapia più adatto sembrerebbe essere quello di tipo attivo, grazie all’interazione diretta tra musicoterapeuta e soggetto;
  • In generale, la musicoterapia sembrerebbe essere l’approccio migliore per un trattamento da ritagliare intorno all’individuo per il miglioramento di sintomi legati alla demenza anche in stadi moderati-severi.
  • Per quanto sia importante tenere in considerazione le necessità del paziente, non è strettamente obbligatorio basare l’intervento sulle sue preferenze: non sono stati evidenziati particolari benefici nell’uso di canzoni familiari al soggetto o da lui preferite;È fondamentale che ci si attenga ad una certa rigorosità e soprattutto alla pratica basata sulle evidenze che si possono ritrovare in letteratura.

La musicoterapia può essere importante per ridurre agitazione e altri sintomi in soggetti con demenza, così come quella di dover concentrarsi maggiormente sulla ricerca per individuare quali siano, effettivamente, le tipologie musicali più adatte per questa specifica terapia. Aggiunge però un altro dettaglio importante: poiché non è infrequente che al termine del ciclo di sedute ci sia il rischio di ritornare a livelli di agitazione simili all’inizio, le sessioni di musicoterapia dovrebbero essere somministrate da musicoterapeuti certificati, almeno 2 volte a settimana per 30 minuti a intervento.

L’interessamento verso le terapie non farmacologiche per il trattamento delle demenze non è necessariamente recente, ma è solo negli ultimi anni che si è accompagnato alla necessità di documentare con il giusto rigore gli effetti di questi trattamenti. L’uso delle arti, in particolare della musica, ha fatto e sta facendo scaturire un numero crescente di studi in letteratura: non sappiamo ancora tutto quel che c’è da sapere sulla musicoterapia e sui meccanismi sottostanti che va ad attivare, ma i primi risultati sono promettenti. Questo, combinato ai costi relativamente contenuti e all’istituzione di programmi sempre più scrupolosi basati sulle evidenze scientifiche, crea prospettive interessanti che incoraggiano verso l’uso di questa terapia per portare miglioramenti nella qualità della vita di soggetti affetti da Alzheimer e altre demenze.


Hai qualche domanda? 055 6510477055 6510477 Anche su Whatsapp